Spalla

Fornai, contadini, preti e sceriffi; ecco le maschere tipiche pugliesi

Elena Albanese
Se la più famosa è sicuramente Farinella di Putignano, la più antica è invece Don Pancrazio Cucuzziello da Bisceglie, le cui origini risalgono alla Commedia dell'arte
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Farinella è sicuramente la maschera pugliese più nota, data la fama del Carnevale di Putignano che le ha dato i natali e di cui è simbolo.

Sarebbe stato un fornaio del XIV secolo, da qui il nome che richiama la farina finissima, ricavata da ceci e orzo abbrustoliti e poi ridotti in polvere dentro piccoli mortai di pietra, tipica della cucina putignanese. La leggenda narra che Farinella sia riuscito, grazie a un astuto tranello, a cacciare i saraceni che facevano razzìa in città e nei dintorni. Da qui l’onore di diventare emblema del Carnevale, inizialmente rappresentato come un ubriacone (a causa del suo naso sempre rubizzo) senza caratteristiche particolari se non la miseria. Poi, col restyling degli anni ’50 a opera di Mimmo Castellano, divenne la gioiosa e colorata fusione tra Arlecchino e il Jolly delle carte da gioco, con un abito a toppe, un gonnellino rosso e blu – colori della città – e un cappello a tre punte con campanelli, simbolo dei tre colli su cui sorge Putignano.

Ma Farinella non è l’unico personaggio che dà vita al Carnevale nelle nostre città, né il più antico, che sembrerebbe essere invece Don Pancrazio Cucuzziello da Bisceglie, non a caso detto appunto il “Biscegliese”. La sua origine risale addirittura alla Commedia dell’arte. «È il tipico provinciale pugliese avaro, possidente terriero e corteggiatore di donne giovani», lo descrive Antonio Cortese, studioso, editore e autore di un testo sull’argomento. «La maschera risale al ‘600, nell’800 era in voga al San Carlino di Napoli e si trovano sue tracce anche in Francia».

A Gravina in Puglia, poi, simboli di questo periodo dell’anno sono Giuàn e la Quarandoir, nomi con cui la fantasia popolare ha etichettato di fatto il Carnevale e la Quaresima.

Si dice che il primo fosse inizialmente un prete, che avrebbe lasciato l’abito talare per sposare la seconda, una donna rivelatasi solo troppo tardi per quello che era: pettegola, golosa e ubriacona. Se la storia che portano con sé non è molto felice né edificante, pare però che i fantocci dei due, realizzati dai paesani e posizionati su due sedie malridotte, portassero nella famiglia che li esponeva prosperità e benessere. In passato infatti era facile trovarne molti per le strade della città appesi vicini; in alto o a lato delle porte delle case; o trattenuti da funi tra un balcone e l’altro. Addirittura, si faceva a gara a chi avesse costruito i più belli o i più caratteristici. L’ultimo giorno di Carnevale, poi, si assisteva al funerale di Giuànn e alla conseguente disperazione della Quarandoin per la perdita del marito.

Una storia che – seppur con nomi in parte diversi – ricorda molto quella di Ruvo di Puglia e della sua maschera tipica: ‘mba Rocchetidde, cape de rafanidde. È un contadino dai baffi folti e viene chiamato così perché ha in mano un mazzetto di ravanelli. Gioviale e godereccio, adora festeggiare, fumare il sigaro, bere e soprattutto mangiare. E sarà proprio un gigantesco calzone di cipolla mal digerito a costargli la vita. La sua morte rappresenta ovviamente la fine del Carnevale e l’inizio della Quaresima, rappresentata da sua moglie, la Quarantana, appunto, il cui fantoccio vestito a lutto viene appeso il mercoledì delle Ceneri agli angoli delle strade fino alla Pasqua, quando sarà bruciato.

Sicuramente la tradizione più ricca è però a Corato, che nelle sue sfilate ormai trentennali, molto note nel nord barese, annovera, fra gli altri, i personaggi tipici de U’ panzone e La vecchiaredd.

Il primo risale alla fine dell’Ottocento. Un po’ come il biscegliese don Pancrazio, rappresenta la borghesia agraria, allegoria di una ricchezza prepotentemente ostentata, ma anche di falsa generosità. La seconda è più antica, forse importata dalla tradizione carnascialesca napoletana, e ricorda anch’essa la Quarantana, ma simboleggia allo stesso tempo la forza della vecchia generazione, che porta sulle spalle quella nuova ancora debole e indifesa.

Negli anni ’50 e ’60 è ritornato in voga anche U Scerìff, diretta conseguenza del benessere economico e retaggio dell’esuberanza degli eroi western di Hollywood.

Re Cuoraldino, infine, è il logo del Carnevale coratino, ispirato allo stemma della città con le Quattro Torri e il cuore centrale.

mercoledì 7 Febbraio 2018

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